"Insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa".

"Vedete, noi siamo qui , Probabilmente allineati su questa grande idea, quella della nonviolenza attiva. Noi qui siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà.Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.

mercoledì 27 gennaio 2010

LA SHOAH E LA MEMORIA versi per non dimenticare

Le poesie esposte nella mostra “La Shoah e la Memoria”, composte nel lager durante la prigionia o successivamente da sopravvissuti e da parenti di internati, sono tratte dal volume The Auschwitz Poems pubblicato dal Museo Statale di Auschwitz-Birkenau nel 1999.
I testi sono stati tradotti per la prima volta in italiano, su licenza del museo polacco, da Marilinda Rocca (curatrice, insieme al Prof. Adam A. Zych, della versione italiana di questa antologia poetica, di prossima pubblicazione)


NOTTE SU BIRKENAU

Un’altra notte. Torvo, il cielo si chiude ancora
sul silenzio mortale volteggiando come un avvoltoio.
Simile ad una bestia acquattata, la luna cala sul campo —
pallida come un cadavere.

E come uno scudo abbandonato nella battaglia,
il blu Orione — fra le stelle perduto.
I trasporti ringhiano nell’oscurità
e fiammeggiano gli occhi del crematorio.

È umido, soffocante. Il sonno è una tomba.
Il mio respiro è un rantolo in gola.
Questo piede di piombo che m’opprime il petto
è il silenzio di tre milioni di morti.

Notte, notte senza fine. Nessuna alba.
I miei occhi sono avvelenati dal sonno.
La nebbia cala su Birkenau,
come il giudizio divino sul cadavere della terra.

Tadeusz Borowski, KL Auschwitz


INFERNO

La Divina Commedia sarebbe
un’opera di grande sensazione
se Dante, invece che all’Inferno,
fosse stato nei campi di concentramento.

Halina Szuman, Auschwitz, 1944


LE ARPE DI BIRKENAU
frammento

[…] Le ruote s’affrettano lungo la rotta
spingendo la vittoria del crimine:
trasportano, trasportano la gente al gas,
la gente al crematorio, la gente alla pira cosparsa di benzina.
Il fumo fluttua, denso e immondo…
Qui, uomini bruciano altri uomini.

E sui pali luminosi
brillano i fili tesi.
Queste sono le arpe di Brzezinka,
le arpe di Birkenau.

Zofia Grochowalska-Abramowicz, Birkenau, 1944


VITA SCIUPATA

Vita sciupata
Che infamia
Che i giorni scorrano senza alcun senso
Che anziché il riso — io conosca soltanto lacrime

Sono avvilita, sono angosciata
Per aver perduto ogni speranza da così tanto tempo

Come accettare la grettezza umana?
Come pensare alla morte — quando il mondo mi sta chiamando!
Non ho ancora vent’anni
Sono giovane!
Giovane,
GIOVANE!

Vita sciupata, che infamia…

Halina Nelken, Auschwitz, 1944


LETTERA ALLA MADRE
frammento

[…] Fili elettrici, alti e doppi,
non ti lasceranno mai più rivedere tua figlia, Mamma.
Non credere alle mie lettere censurate,
ben diversa è la verità; ma non piangere, Mamma.

E se vuoi seguire le tracce di tua figlia
non chiedere a nessuno, non bussare a nessuna porta:
cerca le ceneri nei campi di Auschwitz,
le troverai lì. Ma non piangere — qui c’è già troppa amarezza.

E se vuoi scoprire le tracce di tua figlia
cerca le ceneri nei campi di Birkenau:
saranno lì — Cerca, cerca le ceneri
nei campi di Auschwitz, nei boschi di Birkenau.

Cerca le ceneri, Mamma — io sarò lì!

Monika Dombke, Birkenau, 1943


L’APPELLO DEL MATTINO

Il sole sorge sul campo di Auschwitz,
Splendente di un bagliore roseo
Stiamo tutti in fila, giovani e vecchi,
Mentre nel cielo scompaiono le stelle.

Ogni mattino stiamo qui per l’appello
Ogni giorno, con la pioggia o con il sole
Sui nostri volti sono dipinti
Dolore, disperazione, tormento.

Forse proprio ora, in queste ore grigie,
A casa mia piange un bambino
Forse mia madre sta pensando a me…
La potrò mai rivedere?

In questo momento è bello sognare ad occhi aperti,
Forse proprio ora il mio innamorato mi pensa
Ma — Dio non voglia — se
Andassero a prendere anche lui?

Come su uno schermo argentato
L’azione continua splendida
Poco lontano arriva qualcuno
In una limousine nuova e brillante.

Scendono con lentezza e con grazia,
Le “Aufseherinnen” (1) indossano abiti blu.
Ci trasformiamo immediatamente in pilastri di sale,
Numeri, nullità inanimate.

Ci contano con arroganza sprezzante
Loro — la razza più nobile
Sono i tedeschi, la nuova avanguardia
Che conta la marmaglia a strisce, senza volto.

All’improvviso, come per una scossa elettrica, rabbrividiamo
Al pensiero che simile a un razzo ci balena in testa
Costei deve essere anche una moglie o una madre
Una donna… E anche io sono una donna…

La pellicola sensazionale si svolge lentamente
“Achtung!” Sistemare la fila!
Questo è un momento davvero speciale,
Si avvicina il “Lagerkommandant”.

È possibile che il mondo sia tanto pericoloso?
Un fischio e, in un attimo, il silenzio
Fra di noi pronunciamo una preghiera quieta
Ma c’è qualcuno che ci può sentire?

Il sole è di nuovo alto nel cielo,
Brillanti e rosei sono i suoi raggi.
O Dio caro, Ti chiediamo
Arriveranno giorni migliori?

Krystyna Zywulska, settembre 1943

(1) Sorveglianti.


CENERI

Un giorno torneremo a casa
o forse no,
chi lo sa?

Un giorno penseremo
che tutto è stato un sogno orrendo, tutto
quel che è accaduto laggiù, in quella Auschwitz
dove il camino sputa fumo
di continuo… di continuo

Vedi la colonna di fumo
e l’enorme bagliore?
‘C’è un fuoco?’, domandi
Ma non lo sai?
Stanno bruciando
migliaia, milioni di corpi umani!

Gente arrivata qui in grossi gruppi,
apparentemente ad un porto sicuro
dopo un viaggio lungo e stancante,
qui dove c’è acqua per dissetarsi
e per lavarsi.
Ma c’è anche il gas…
‘Gas?’, domandi
Ma non lo sai?

È il gas che soffoca asfissia
strangola
La gente non può dire parola
del dolore che prova
Viene subito ridotta al silenzio
e in un attimo
solo una colonna di fumo mostrerà
che qui è stata,
che qui è vissuta
e perita, lasciando soltanto
… CENERI!…

Autore ignoto, KL Birkenau


IL SONDERKOMMANDO

Il Sonderkommando
quei prigionieri
noti come
la Squadra della Morte

non faceva
che strascinarsi
appresso la morte

riordinando
e
rimpacchettando le sue parti

spingevano
le folle
in branco
nelle docce

le
tiravano
fuori
gassate

le
innaffiavano
per toglier via
gli escrementi

agganciavano
i corpi scivolosi
con
cinghie attorno ai polsi

e
li
stipavano

dentro
ai
montacarichi

che salivano
ai
forni.

Lily Brett


LA GARANZIA

Nel
Sonderkommando

ti
erano
garantiti

tre
mesi
di lavoro

latte
pane
lenzuola pulite

cioccolata
dolciumi
cognac

e
tre
mesi
di vita.

Lily Brett


VEDUTA AEREA DI UNA SCENA INDUSTRIALE

C’è un treno sulla rampa, scarica gente
che cade dai vagoni ed incespica verso il portone.
Le ombre dell’edificio si inclinano sul campo,
dietro ogni ombra una più lunga
e da quell’ombra sguscia un’ombra di fumo
nero come terra appena arata. Oltre il portone,
un piccolo giardino e qualcuno inginocchiato.
Sta forse tastando le gialle fioriture
per vedere quali hanno attecchito e quali avvizziranno,
avvinghiate a un pomodoro verde che cresce.
La gente fa resistenza ma è spinta a forza verso il portone aperto,
e quando entrerà vedrà il giardino
e qualcuno, egli stesso giardiniere, anelerà a
buttarsi in ginocchio, per districare rampicanti,
strappare erbacce, rinfrescarsi le mani nella terra umida.
Moriranno presto, questione di minuti.
Anche dalla nostra altezza, vediamo sulla fotografia
l’ombra dell’aereo che, scura e immensa, si stampa
su Birkenau, con un’ala nera che ombreggia il giardino.
Non possiamo dire quali sono le guardie e quali i prigionieri.
Siamo osservatori. Ma se avessimo delle bombe, le lanceremmo.

Andrew Hudgins


RUDOLF HÖSS

Cultivez votre jardin! —
ripeteva il comandante di Auschwitz
a imitazione di Voltaire.

E perché no?
… Ma se il suo giardino
si trovava in prossimità
dei quattro crematori
dove ogni giorno bruciavano
migliaia di cadaveri.

Julius Balbin


CIOCCOLATA VERA

La pratica dello stupro di gruppo di prigioniere da parte dei soldati era un fatto comune nei campi...
– recluso anonimo di Auschwitz –


Mi attirarono fuori dalla baracca
con promesse di cioccolata
e parole come ”Schätzchen”,
ma le altre donne sapevano,
e, ancor prima di udire i rumori là fuori,
mi chiamarono puttana dei soldati.
Anch’io sapevo,
ma la fame ha un modo tutto suo di cambiarti,
e di farti scordar chi sei.
Buffo, come vi possa essere speranza nella disperazione.

Gettarono la cioccolata per terra
e risero: ”Da friß.” La desideravo da impazzire,
ma il sapore fu di fango. ”Dreh dich rum, Judenschwein.”
Vidi enormi stivali neri, paia e paia,
e il terreno così fangoso
da far sprofondare il mio corpo.
Tirai su il mio abito da prigioniera ed allargai le gambe.
Erano così leggere e s’aprirono così facilmente
che ringraziai Dio, sapevo
che non avrei resistito.
Questo corpo non è più mio, questa fame;
finalmente, non c’è più motivo di lottare.

Mi chiedo ora se il loro desiderio di me
fosse una brama di morte:
fottere una donna calva ch’era soltanto pelle e ossa,
la cui unica salvezza era una tazza di zuppa acquosa
per cena, una fetta di pane raffermo,
e forse, se i soldati l’avessero di nuovo voluta,
questa volta, un pezzo di cioccolata vera.

Stewart J. Florsheim


IL VIOLINISTA DI AUSCHWITZ

A Jack-Yaacov Strumsa
– superstite di Salonicco

Ogni mattino
anche quando per caso
non c’è stato nessun incubo
quando non mi son destato
in un sudore freddo,
quando non mi sono alzato nello spavento,
nel terrore delle SS.
Proprio ogni mattino.

Mi domando
dove andrò oggi?
Mi vesto, bevo il tè,
avvio l’auto
e parto ?
per dove?

Il motore ronza sommesso
i luoghi scorrono via veloci
il viale, i semafori
la strada s’inerpica,
su per la collina,
il cancello aperto.
Ogni mattino
Yad Va’Shem ?
il Memoriale dell’Olocausto.

Lo stesso borbottio
le stesse voci
le stesse note
la stessa musica
la marcia
la piccola città in fiamme.
La musica guida la mia auto,
mi trascina come una calamita
come un cavo
come la catena di un argano
a Yad Va’Shem.

La Tenda della Memoria
il Lume Perpetuo
candele
la Sala dei Nomi
foto, occhi,
denti, dentiere d’oro, capelli umani.
Qui stanno le camere a gas,
i forni,
i crematori
e gli ebrei in informi abiti a strisce
che spostano corpi.
Donne nude che cercano invano
di celare la loro vergogna
sul ciglio della fossa comune.
Mancano soltanto
il fetore, il fumo e la musica.

Cosa significano il rumore,
la cadenza dei passi
“Links, sinistra, sinistra…!”
La frusta, gli spari,
“Il lavoro rende liberi”
sull’arco sopra il cancello.
E tutt’intorno
mura, cani, e filo spinato;
elenchi di nomi e di numeri
e c’è una mano ? Yad, mani.
Nella parata, chi viene, chi va
da dove, per dove?

Là io suonavo il violino,
fui selezionato
per l’orchestra
che ogni giorno accompagnava, con la musica,
gli ebrei spinti
nelle camere a gas
sull’orlo dell’abisso ?
al luogo da cui nessuno fa ritorno,
nessuno torna indietro
è soltanto rimosso, cadavere
per gli inceneritori.

Non v’è più bisogno di correre
nessun motivo di terrore
ma quella melodia echeggia ancora nella mia testa.

E così arriverò
qui, oggi ieri
domani,
davanti alla foto dei suonatori:
un’orchestra che guida
la processione infinita di quelli che camminano
nella Valle dell’Ombra della Morte.

Sì, ora sono un nonno
dai capelli bianchi;
rimane ben poco di me
ma i miei tratti somigliano ancora,
un po’, al violinista, a me,
là sulla foto
di Auschwitz.

E può accadere
che un visitatore di Yad Va’Shem mi osservi,
fissi la parete, e resti sorpreso.
Come se vedesse qualcuno
al di là di uno spartiacque ?
un’apparizione che, per lui,
appartiene all’altro mondo;
che, per me, è
quel mondo che fu.

Mattino dopo mattino
giorno dopo giorno
arriverò qui,
con quella musica che mi perseguita,
a quelle immagini sulla parete
a quel fetore nelle narici
che solo io posso avvertire.

Questo è il mio luogo, gli appartengo.
Non sono una “statua vivente”:
son vivo.
Di questo monumento
sono una parte.
Questo Yad Va’Shem ?
Mano e Nome ?
e corpo:
il mio.

Moshé Liba


DA AUSCHWITZ

Che porte enormi e pesanti!
Un odore strano, tenace
Fievole ma persistente… Un disinfettante potente.
‘Restate attorno al punto della doccia.’
Aspetta l’acqua. Non pensare alla folla.
Non notano la tua umiliazione.
Non distinguono la tua testa rasata da tutto il resto!

Mio Dio!… Stanno chiudendo quelle maledette enormi porte!
Perché?… Non può essere!
No, fra un minuto arriverà l’acqua.
Non piangere, sii soltanto paziente,
Presto sarà tutto finito.

C’è un rumore — lassù.
Stanno sollevando una grata.
Tutti gli occhi osservano, sorpresi.
Nessun suono.
Che cosa sono quei cristalli?… Disinfettante secco.
Zolfo!!?

Gas! Gas! Gas! Panico!
Le urla, l’annaspare
Strattoni e mischia.
Il terrore totale del rendersi conto.

Minuti eterni ad arrampicarsi e azzuffarsi.
Dimenticate le famiglie. Istinto di conservazione.
Carne su carne — che afferra e strappa.
Gas, urla, morte… silenzio.

Elizabeth Wyse


LA VALLE DELLE OSSA SECCHE

In ricordo del mio amato zio Eugenio,
dello zio Jacob e di sua moglie Ilona,
dello zio Ernesto e di sua moglie Ethel, della zia Rachele,
e di tutti i miei familiari uccisi
dai nazisti ad Auschwitz

Nella valle delle ossa secche
Non vi sono tombe, non vi sono lapidi —
I resti pietrificati
Di vittime innocenti della persecuzione
Coperti da macchie di sangue
Sono disseminati ovunque,
Incutendo orrore e sgomento
Sul terreno argilloso.
Fui testimone della loro ingiusta esecuzione —
Vennero portati a forza
Nelle camere di sterminio,
Presi a calci e picchiati da pugni crudeli —
Avevano numeri tatuati sui polsi
E lo Scudo di David sui petti —
Andarono incontro alla morte
Pronunciando la preghiera sacra
Con l’ultimo respiro:
“ASCOLTA ISRAELE, IL SIGNORE È NOSTRO DIO
IL SIGNORE È UNO —”
Martiri coraggiosi della stirpe ebraica,
Membri della mia famiglia,
Compagni di prigionia,
Son passati tanti anni
Da quando ve ne siete andati —
Ma io ricordo ancora il vostro grido disperato:

“Decadranno i nostri corpi,
Marcirà la nostra carne,
Se sopravvivrai ad Auschwitz
Non lasciare, per favore, che su di noi cada l’oblio!”

La mia vita fu risparmiata
Per l’intervento di Dio,
Conosco lo scopo di quella protezione celeste:
Far ritorno con il ricordo
Della vostra sofferenza e del vostro dolore,
Far sì che non siate morti invano,
Esaudire il vostro ultimo desiderio,
Non lasciar mai perire i vostri spiriti coraggiosi —

Magda Herzenberger


QUEL CHE È RIMASTO

Quando
il
resto del mondo

si
ridestò

scoprì

in
quel che
era rimasto

del
Canada

le
sei
baracche

che
non erano
state incendiate

38.000 paia di scarpe da uomo
13.964 tappeti
e
836.255 abiti da donna.

Lily Brett


“MUSEO” DI AUSCHWITZ

Capelli morti
che un tempo abbellirono
il capo di giovani donne
ed ora giacciono
dietro vetro trasparente.

Scarpe vecchie
che calzarono i loro piedi
e li condussero qui.

E vecchi occhiali,
denti finti,
alcune stampelle, e
qualche protesi.

Michael Etkind


AUSCHWITZ

considerare ogni parola
su gli oggetti

su gli occhiali
su le scarpe
su i capelli tagliati

su le brune valigie
con i nomi

immagini di dolore
documenti d’orrore

le scatole ammassate
di Zyklon B

le bambole rotte
nella vetrina

le lunghe file
nella latrina

i ferrigni attrezzi
nel crematorio

considerare ogni parola
su la realtà

ad Auschwitz
sbocciano rose rosse

e il cielo
è blu

Peter Paul Wiplinger


LA VISITA, AUSCHWITZ 1971

Il Dottor Bronowski in piedi negli acquitrini.
È tornato in Polonia e si accovaccia sulle scarpe pesanti,
raccoglie del fango e lo versa da mano a mano.
Qui, dice il Dottor Bronowski, con lo sguardo
che concentra la luce,
stanno le ceneri di quattro milioni di persone.
Osserviamo la melma fina dei nostri genitori
scivolare fra le sue mani.

Ci parla camminando nell’acqua. L’umidità
gli sale nelle scarpe. Nel centro viscido
il cielo è diventato i suoi occhi, la pellicola dello stagno
gli si avviluppa contro, abbracciandogli la carne.

Lisa Ress


ANNIVERSARIO, 9 SETTEMBRE

Questo è il giorno in cui iniziò la tua agonia.
Non riesco a richiamarlo alla mente
Ma non posso dimenticarlo.

Dopo Auschwitz, disse Adorno,
Nessuno dovrebbe scrivere poesia.
Che cosa è la poesia? Dopo Auschwitz?

Io scrivo, tuttavia. Altri scrivono.
In che altro modo potremmo
Uscirne fuori?

Perché dentro, vince l’oscurità.
Oscurità. Luce mattutina. Il tuo risveglio
Colmo di speranza, oggi, cinquant’anni fa.

La frontiera innanzi a te: salvezza, libertà.
L’eccitazione, l’esaltazione.
Il sole che splende soavemente

Poi all’improvviso l’intoppo: gli arresti,
Le retate. Ansia, agitazione, terrore,
mani che forse si torcono, mani che ricordo

La mente non può mettere ordine…
Le parole vengono meno…
Ma io continuo a balbettare.

Hilda Schiff


AUTUNNO 1975

Da quando papà è morto
Osservo i tuoi passi minuscoli
Sul fragile spazio della vita.

Vento sferzante —
Ottobre come un corvo
Sul tuo volto stanco.

Lo so, non posso
Chiederti un sorriso
Nei tuoi occhi il pozzo del tempo
Gorgoglia, l’eco mai s’acquieta.

Mi salvasti la vita ad Auschwitz
Ora, scoveremo piccole scintille
Che brillano sul mare di ceneri.

Non temere le foglie secche
Resisti, Madre mia,
Resisti!

Adam Szyper


CONTINUO A DIMENTICARE

continuo a dimenticare
i fatti e le statistiche
ed ogni volta
ho bisogno di saperli

cerco nei libri
questi libri occupano
venti scaffali
nella mia stanza

so dove andare
per confermare il fatto
che nel Ghetto di Varsavia
c’erano 7,2 persone per stanza

e che a Lodz
destinavano
5,8 persone
ad ogni stanza

dimentico
continuamente
che un terzo di Varsavia
era ebreo

e che nel ghetto
stiparono 500.000 ebrei
nel 2,4 per cento
dell’area della città

e quanti
corpi bruciavano
ad Auschwitz
all’apice della produzione

ventimila al giorno
devo controllare
e ricontrollare

ed ho sognato
che il 19 gennaio alle 4 del pomeriggio
58.000 carcerati emaciati
furono fatti marciare fuori da Auschwitz?

ricordavo
bene che a Bergen-Belsen
dal 4 al 13 aprile 1945
arrivarono 28.000 ebrei da altri campi?

ricordo
centinaia e centinaia
di numeri telefonici

numeri
che non chiamo
da vent’anni
sono immediatamente disponibili

e ricordo
le conversazioni delle persone
e quel che la moglie di qualcuno
ha detto al marito di qualcun’altra

che buona memoria
hai
mi dice la gente.

Lily Brett


ENIGMA

Da Bergen una cassa di denti d’oro,
Da Dachau una montagna di scarpe,
Da Auschwitz una lampada in pelle.
Chi ha ucciso gli ebrei?

Non io, esclama la dattilografa,
Non io, esclama l’ingegnere,
Non io, esclama Adolf Eichmann,
Non io, esclama Albert Speer.

Il mio amico Fritz Nova ha perduto il padre,
un sottufficiale dovette scegliere.
Il mio amico Lou Abrahms ha perduto il fratello.
Chi ha ucciso gli ebrei?

David Nova ingoiò il gas,
Hyman Abrahms fu picchiato e ucciso dalla fame.
Certi firmavano le carte,
e certuni stavano di guardia,

e certi li spingevano dentro,
e certuni versavano i cristalli
e certi spargevano le ceneri,
e certuni lavavano le pareti,

e certi seminavano il grano,
e certuni colavano l’acciaio,
e certi sgomberavano i binari,
e certuni allevavano il bestiame.

Certi sentirono l’odore del fumo,
certuni ne udirono solo parlare.
Erano tedeschi? Erano nazisti?
Erano uomini? Chi ha ucciso gli ebrei?

Le stelle ricorderanno l’oro,
il sole ricorderà le scarpe,
la luna ricorderà la pelle.
Ma chi ha ucciso gli ebrei?

William Heyen

lunedì 25 gennaio 2010

Serpico, il poliziotto eroe di VITTORIO ZUCCONI




Frank Serpico
Nell'alta valle del fiume Hudson, dove l'acqua del fiume che bagnerà poi Manhattan è ancora limpida, vive da eremita il vecchio che fece crollare il "Blue Wall", il muro blu dell'omertà e della corruzione poliziesca a New York: Serpico. Nel cranio porta ancora i frammenti dei proiettili che gli furono esplosi in faccia. Nel cuore l'amarezza per essere stato dimenticato ed espulso dai "fratelli" in uniforme come un rifiuto tossico. Nel nome riassume la vergogna e lo scandalo che cambiò la polizia in blu e che fece di lui un libro venduto a tre milioni di copie, un'inchiesta ufficiale devastante e un film leggendario.
Lo ha scovato, nella capanna di tronchi da pioniere che egli stesso si è costruito e dove vive con la sua "ragazza" come chiama la signora di cinquant'anni che gli fa compagnia, il New York Times, mezzo secolo dopo quel 1959 nel quale Frank Serpico divenne patrolman, piedipiatti, poliziotto di quartiere a Brooklyn. Frank, che da vecchio somiglia sempre più, nella barba un po' irsuta, nel volto stazzonato da 73 anni di vita dura, nella bandana che gli avvolge la testa ancora trafitta dal dolore dei frammenti di piombo, al personaggio che Al Pacino portò sullo schermo, non è, neppure nella quiete profonda dei boschi, un uomo in pace. Serpico è ancora in guerra col mondo, come era in guerra con i gangster, i pusher, i magnaccia, i mafiosi di Brooklyn, ma soprattutto con i suoi colleghi del "Nypd", il Dipartimento di Polizia, che di quei delinquenti erano al soldo. "Ho ancora incubi - racconta - ogni volta che schiudo una porta, vedo la canna della pistola che mi sparò in faccia".
Vede, soprattutto, quello che accadde dopo, mentre lui cadeva sul pianerottolo della casa di Brooklyn dove era entrato per fermare lo scambio di 10 chili di eroina, con il volto coperto di sangue. Ricorda i colleghi in blu e in borghese, quelli come lui, i detective under cover che assistono alla sua probabile agonia senza invocare nei walkie-talkie e nelle autoradio il "Codice 10-13", "agente a terra colpito" che avrebbe richiamato le ambulanze. Rivede il vecchio immigrato clandestino, un messicano, che da un appartamento vicino chiamò i soccorsi, prima che un'autopattuglia finalmente lo buttasse sul sedile posteriore, portandolo a un ospedale. Frank Serpico, il "napoletano", il figlio di un italiano arrivato da Marigliano, oggi uno dei borghi satellite più inquinati di Napoli, doveva morire, perché tutti sapevano che aveva deciso di scuotere l'albero della cuccagna, i soldi che la polizia incassava dalla malavita.
"Non so che cosa sia cambiato, forse qualcosa, forse niente", dice oggi, da lontano, nella solitudine della sua log cabin, della capanna di tronchi, "Paco", come lo avevano soprannominato, dove sta scrivendo le memoria "prima che sia troppo tardi". Allora, molto sembrò cambiare, e quella schioppettata in faccia che lui si prese entrando nel nido degli spacciatori nell'indifferenza soddisfatta dei colleghi, fece finalmente tremare il "Muro Blu". Fu insediata una commissione d'inchiesta guidata dal giudice Knapp che scoperchiò, per la prima volta, il pentolone. Dozzine di agenti, di detective, di ispettori, di dirigenti, furono arrestati o radiati, permettendo ad altri di dimettersi in silenzio, per salvare quello che restava della "faccia".
La Commissione Knapp cercò di distinguere fra la grande corruzione e quella spicciola, quotidiana. Disegnò due categorie di poliziotti "on the take", come si dice nel gergo, pagati dai criminali. I Vegetariani, i "grass eaters", quelli che si accontentavano di brucare le banconote infilate nella stretta di mano, di fare la spesa e di cenare gratis nei negozi e nei ristoranti per non vedere quello che accadeva nei retrobottega. E i Carnivori, i "meat eaters", i complici ingordi delle grandi organizzazioni, dei gangster, delle "famigghie", delle quali erano la protezione e la copertura. Si parlò di "centinaia di milioni di dollari" ruminati o divorati ogni anno da vegetariani come da carnivori.
Il figlio dell'immigrato napoletano che "non ci stava" fu celebrato fuori, ed esecrato dentro: "avevo spezzato l'omertà". Venne promosso a detective, decorato con una medaglia che oggi tiene buttata in un cassetto, salutato davanti alle telecamere dai tromboni del potere come un eroe. E poi, appena cinque anni dopo la grande "pokazuka", la sceneggiata del risanamento, allontanato. Scomparve. Emigrò in Europa, in Svizzera, quanto di più lontano dalla sua New York si potesse trovare, vivendo con la quota di diritti d'autore sul libro che Peter Mass aveva scritto su di lui e con lui, e sul film girato da Sidney Lumet con un sensazionale Al Pacino.
Ma neppure la Svizzera fece di lui un mite borghese integrato. Quando si rassegnò a tornare in patria, tornò a New York, sì, ma nello Stato, nel nord selvatico. Riprese i panni dello hippie che usava da investigatore e l'irrequietezza del ribelle che era sempre stato, anche con il "badge", con il distintivo della polizia, e la sua famosa Browing 9mm, sotto gli stracci da vagabondo. E anche dalla solitudine silvana, non avrebbe mai smesso di dar fastidio. Oggi nel suo blog ringhioso, ieri con lettere ai giorni, avrebbe continuato a irritare quella polizia dove, da bambino italiano aveva sognato di entrare. "Forse sono meno corrotti, ma sono ancora più brutali e quindi ancora più fuori dalla legge che dovrebbero far rispettare", dice e ricorda Amadou Diallo, il ghaniano di 23 anni disarmato che quattro poliziotti del Bronx abbatterono nel 1999 sparandogli 41 colpi di pistola in corpo per "malinteso", uscendo tutti assolti.
Non c'è pace per lui, neppure fra i larici e gli abeti del Nord, dove la compagna lo sorprende a seguire tracce di sangue nella neve, per raggiungere animali, cervi, orsi, procioni, martore e scoprire perché abbiano sanguinato. Un matto, un maniaco, come tutti coloro che si ostinano a credere alla giustizia.

© Riproduzione riservata (25 gennaio 2010